“E’ vietato all’imprenditore di affidare in appalto o subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario. Gli imprenditori che appaltano opere o servizi, da eseguirsi nell’interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore, sono tenuti in solido con quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiori a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti”.

Siamo nel 1960 e il legislatore, cioè il Parlamento e quindi la Politica, approvano la legge 1369 che stabilisce il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e disciplina l’impiego di manodopera negli appalti di opere e servizi. Per decenni, non solo grazie alle norme ma a un sistema economico e produttivo che produceva beni e servizi prevalentemente per il mercato di consumi interno e protetto dalle politiche monetarie e commerciali “difensive” degli interessi dei singoli Stati, le imprese hanno ritenuto più conveniente produrre in proprio tutti i beni e servizi necessari all’attività che comprarli sul mercato.

La legge 1369 è stata sostanzialmente abrogata nel 2003 con l’approvazione del Dlgs.276, cosiddetta Legge Biagi, con due finalità: garantire maggiore “flessibilità” necessaria alle imprese a rispondere meglio ai processi di globalizzazione in atto da almeno un decennio e aumentare l’occupazione. Per il lavoro ha significato sopratutto precarietà, diminuzione di diritti e peggioramento delle condizioni economiche, a partire, ma non solo, dagli appalti. Lo strumento giuridico dell’appalto è stato sostanzialmente utilizzato per potentissimi processi di esternalizzazione di attività precedentemente in capo allo stesso datore di lavoro, producendo una diminuzione dei costi per il committente a partire da quello del lavoro, la proliferazione di condizioni contrattuali diverse nello stesso luogo di lavoro e quindi una frammentazione dell’interesse collettivo. Insomma, peggiori condizioni per i lavoratori e le lavoratrici e maggiori difficoltà a organizzarsi per cambiare quelle condizioni. Uno tsunami che ha travolto decenni di lotte per l’affermazione dei diritti del e nel lavoro e che ha riguardato non solo l’impresa privata ma anche il pubblico. Segno evidente di come le teorie economiche, in questo caso neo-liberiste, si occupino e trasformino tutte le sfere della vita delle persone, dalla scuola, al lavoro, all’assistenza, alla cultura. La dimensione assunta dalle esternalizzazioni o appalti è talmente rilevante che facciamo fatica perfino a riconoscerne la presenza. In moltissime aziende manifatturiere, la gestione dei magazzini o di fasi produttive sono affidate ad appaltatori, le pulizie delle camere degli alberghi, le pulizie nelle sale operatorie o il trasporto dei pazienti negli ospedali, le biglietterie dei musei o la gestione delle biblioteche sono in appalto. Lavoratrici e lavoratori che svolgono funzioni “essenziali” per l’impresa o la pubblica amministrazione ma che, spesso, hanno meno diritti degli altri e vivono in una condizione di precarietà “a tempo indeterminato”.

Eppure si possono fare delle scelte diverse, che cambiano le condizioni di quelle lavoratrici e di quei lavoratori ma anche un sistema economico e sociale che dimostra ogni giorno la sua “insostenibilità”. Lo si può e lo si deve fare attraverso le scelte del legislatore e quindi della politica, lo si può e lo si deve fare attraverso la contrattazione, sia nazionale che aziendale o territoriale, a partire dalla parità di condizioni e applicazioni contrattuali uguali “stesso lavoro, stessi diritti” e dalla reinternalizzazione nel privato e nel pubblico di attività e quindi di lavoro.

- Paola Galgani, Segretaria generale CGIL Firenze

Articolo tratto dal decimo numero di Casa per Casa, dedicato a politiche sociali, salute e lavoro, disponibile qui