Il voto in Sardegna insegna che l’unità di un campo progressista può essere vincente se interpreta la domanda di cambiamento.

La vittoria di misura di Alessandra Todde in Sardegna per qualche migliaio di voti sta a dimostrare che un campo progressista costruito su scelte chiare, programmi coerenti e con persone credibili alla fine può risultare vincente. Soprattutto quando riesce ad interpretare una domanda di cambiamento: è quello che è successo in questo appuntamento elettorale.

Sarebbe sbagliato sopravvalutare il significato politico nazionale di questo voto, ma si tratta sicuramente di un primo segnale per il governo Meloni, che in questo anno e mezzo non è riuscito a far ripartire il Paese: i problemi sono ancora tutti lì sul tappeto, irrisolti e, in alcuni casi, aggravati. A pagare il prezzo di una crisi acuta ancora una volta sono i lavoratori e in generale i ceti medio bassi che hanno visto ridurre ulteriormente il proprio potere d’acquisto e la possibilità di accedere a beni e servizi essenziali quali la casa, la sanità, l’istruzione, l’energia. Il voto è stato anche una risposta, un sussulto democratico contro la limitazione degli spazi di agibilità democratica, contro il ritorno all’uso del manganello da parte della polizia come successo alle recenti manifestazioni di Pisa e Firenze per il cessate il fuoco a Gaza.

Ma è soprattutto un voto per il cambiamento del governo della regione Sardegna, male amministrata dalla giunta Solinas negli ultimi cinque anni.

La proposta del campo progressista è risultata con-vincente in quanto costruita su una solida base programmatica alternativa e attorno ad una figura competente, credibile, come quella di Alessandra Todde.

Ad aver perso è soprattutto il centrodestra che, nonostante l’unità formale delle sue componenti, ha perso 37 mila voti pagando per le scelte di governo fatte in questi anni, per le divisioni interne, per un candidato a Presidente, come il sindaco di Cagliari Truzzu, che ha perso anche e soprattutto nella città che ha amministrato.

L’unità quindi, non sempre e non automaticamente porta alla vittoria, in nessuno dei due schieramenti. Può essere una condizione necessaria ma non sufficiente al successo di una proposta politica di governo.

L’alto numero dei non votanti, quasi la metà degli elettori, sta tuttavia ad indicare un disagio non risolto, un distacco dalla politica che dovrebbe suonare come campanello d’allarme per tutti. Le persone sono sempre più propense a giudicare nel merito quello che è stato fatto e quello che viene proposto e se non trova sufficienti motivazioni molto spesso preferisce non andare a votare. Il voto di appartenenza è sempre meno frequente e ciò per alcuni aspetti è anche un bene, perché porta a dover rendere conto di come si è governato o amministrato.

La logica del “tanto ci votano uguale” che ha prevalso per molti anni anche in realtà di forte tradizione e radicamento politico, oggi tende a valere sempre meno. Ci sarà pur un motivo perché nella “rossa” Toscana sette Capoluoghi di provincia su dieci sono amministrati dal centrodestra? Quando la classe amministrativa locale viene sempre più ad assumere i connotati di ceto politico staccato dalla comunità, incapace di dialogare e di farsi carico della domanda di cambiamento, allora la ricerca di un’alternativa può passar sopra anche a valori storicamente radicati.

Altro che guardarsi la punta dei piedi o l’ombelico: la democrazia è innanzitutto rispondere del proprio operato e renderne conto ai cittadini. Gli elettori giudicano sempre di più per quello che fai piuttosto che per quello che prometti. Allora, soprattutto dove il sistema elettorale consente il doppio turno come alle elezioni per i comuni al di sopra dei 15 mila abitanti, meglio la chiarezza delle diverse visioni di governo di un territorio e di una comunità piuttosto che le ammucchiate basate su un patto di potere, destinate ad essere punite dagli elettori. Abbiamo già visto che patti fragili basati sullo spauracchio della destra, per coprire scelte non condivise, funzionano sempre meno e alla fine non vincono perché non convincono.